diversity drives innovation

Diversity for Innovation

diversity drives innovation

27 GEN 2018 Diversity for Innovation

Pubblicato da Redazione

Non è solo un problema di genere: l’innovazione richiede diversità. Diversità di pensiero, di punti di vista, di approccio, di prospettiva, di esperienza. Diversità di mindset e di cultura. La parola a Laura Zanfrini.

Le aziende hanno bisogno di innovazione, tanto bisogno. Eppure davanti alla diversità, anche quando voluta e ricercata, spesso si pongono con gli occhiali della compliance, cioè dell’allineamento, dell’omologazione.
Secondo la mia esperienza, parliamo di compliance quando troviamo due tipi di comportamenti agiti quando la cultura prevalente in un’organizzazione si confronta con qualcuno che viene identificato come diverso:

1. La pressione al conformismo

2. La tendenza a sottovalutare o svalutare le idee diverse o le proposte che vengono da persone diverse.

 

La pressione al conformismo

Incredibilmente frequente, questa pressione vale sia per il genere (tra i tanti segnalo The Worst Career Advice Women Get di Sallie Krowcheck), sia per le persone creative (trovo molto interessante l’articolo Seven rules to manage creative but difficult people di Tomas Chamorro-Premuzic), sia per i millennials (spunti dall’intervista di Simon Sinek con Tom Bilyeu). Recentemente, vale anche per i team che applicano metodologie agile (perché non leggere Embracing Agile di Darrell K. Rigby, Jeff Sutherl e Hirotaka Takeuchi?).

Alle stesse persone che si sono selezionate o sono state messe in una particolare posizione per la loro unicità e competenza distintiva, arrivano improvvisamente richieste di adattarsi, di capire il contesto, di allinearsi ai comportamenti prevalenti. Queste pressioni, più o meno esplicite o forti, creano la categoria “diverso” che evolve velocemente nel “disallineato”. A queste pressioni è molto difficile resistere. In breve tempo l’energia individuale si allinea, in alcuni casi si spegne, in altri scappa. Questa pressione avviene a tutti i livelli, anche nei board. La richiesta di allineamento non è sbagliata in sé, anzi, è funzionale alla velocità necessaria per assicurare l’execution delle strategie.

 

Ma come bilanciare il bisogno di allineamento necessario per l’execution con la necessità di diversità di mindset, funzionale all’innovazione?

In un mondo TUNA (Turbulent-Uncertain-Novel-Ambiguous) – la Oxoford University definisce così i contesti economici attuali – in evoluzione al più conosciuto VUCA (Volatile-Uncertain-Complex-Ambiguous), la responsabilità di top manager e risorse umane è anche quella di assicurare alle aziende le persone e le competenze capaci di immaginare futuri possibili, interpretare segnali deboli, cercare di identificare trend di mercato e tecnologici.

Progettare e difendere team di lavoro affinché sviluppino approcci nuovi, visioni e letture non convenzionali è la nuova sfida per giocare la partita della trasformazione secondo le regole dei contesti TUNA.
Le organizzazioni si trovano quindi, molto più che in passato, a dover progettare contesti/ecosistemi in cui far collaborare in modo funzionale competenze fondamentali al raggiungimento di risultati di breve-medio termine (i champion) con persone che hanno competenze meno “fit”, adeguate, al presente ma potenzialmente utili ad introdurre innovazioni.

 

Facciamo un esempio per evidenziare una situazione molto diffusa.

Un’azienda del mondo pharma ha assunto, più di un anno fa, due specialisti di digital marketing nel life science, inseriti in due diversi team di product marketing. A distanza di mesi, la direzione HR ha dovuto affrontare la demotivazione delle due persone nel non riuscire ad influenzare il modo, consolidato, di pensare al marketing nel farmaceutico.
La difficoltà dell’inclusione viene spesso banalizzata, pensando che basti aggiungere diversità perché le cose cambino. Lo status quo è molto forte da scalfire, soprattutto se posto al presidio di organizzazioni di successo.

 

Ma se il successo rende le organizzazioni più impermeabili alla diversity, come innescare un’apertura indispensabile?

Le ricerche effettuate da Francesca Gino all’Harvard Business School mostrano significative evidenze sui benefici di promuovere il talento ribelle nelle aziende, incoraggiando la “non-conformità costruttiva”.
Alla base del talento ribelle c’è la curiosità, cioè la sete di nuove esperienze e competenze, l’apertura al feedback, ad apprendere, a cambiare. Francesca Gino presenta infatti i risultati delle ricerche Egon Zehnder che mostrano come la curiosità aumenti la probabilità che una persona (leader o professional) non solo sopravviva a sfide inattese, ma che possa prosperare. Incoraggiando la curiosità dei propri collaboratori, e sviluppandola per loro stessi, i leader possono far crescere organizzazioni in grado di includere le diversità e continuare ad essere innovative.

 

Svalutare idee diverse

Se l’omologazione è ciò che spesso ostacola la diversity, diventando una modalità di inclusione forzata, un secondo comportamento attivo nelle organizzazioni è la sottovalutazione e anche svalutazione delle idee e delle persone diverse dalla “norma”.
Questo succede in moltissime occasioni. Più o meno visibili. Le ricerche sui pregiudizi di genere, di orientamento sessuale, di confessione e di razza nelle aziende e nella società raccontano esperienze di svalutazione di idee e visioni collegate a fattori ben lontani dal merito.

Una ricerca del 2016 ha evidenziato come il livello di accettazione dei contributi forniti da donne su GitHub, un’estesa comunità di software open source, fosse tendenzialmente superiore a quelli forniti da uomini solo se le donne non fossero state identificate come tali. In sostanza i ricercatori hanno evidenziato una tendenziale maggior competenza delle donne della comunità, limitata dai pregiudizi.
Questi pregiudizi (bias in inglese) appesantiscono la vita professionale dei “diversi” facendo fare loro più fatica e rallentandoli. Michael Kimmel, sociologo americano specializzato in studi sul genere, nel suo TED Talk del 2015, approfondisce il concetto di privilegio, “invisibile” per chi lo ha.

Uno studio condotto dall’University of California e University of Southern California, pubblicato nel giugno 2017 sul Journal of Social Sciences, ha analizzato l’iter di interviste dei candidati (uomini e donne) a posizioni rilevanti presso due importanti università americane. L’analisi ha evidenziato un privilegio dei candidati uomini: la possibilità di esporre la propria presentazione venendo interrotti meno volte delle colleghe ed avendo, conseguentemente, tutto il tempo per giungere alle conclusioni. Le candidate, pur in presenza di cv di estremo valore, venivano infatti interrotte più frequentemente con domande di approfondimento e di spiegazione, spingendole così ad accelerare la presentazione, a saltare alcune parti, giungendo alle conclusioni in modo più frettoloso, potendo, nei fatti, disporre di minor tempo per esporre in modo coerente il proprio pensiero.

 

Pregiudizi inconsapevoli e privilegi invisibili sono presenti in tutte le organizzazioni.

L’attenzione, quindi, si sposta dalla ricerca e selezione di persone portatrici di diversità (quelle con cui nasciamo e quelle che sviluppiamo con l’esperienza) al loro inserimento e valorizzazione.
La filiale italiana di un’importante azienda americana, in coerenza con progetti internazionali sponsorizzati da casa madre, si è data obiettivi di Diversity&Inclusion, tra cui quelli di aumentare la presenza di donne nelle posizioni di vertice, preservando la forte vocazione meritocratica.
Commentando con uno dei responsabili del progetto i risultati raggiunti, una delle considerazioni condivise è stata “abbiamo nominato una donna, ma è quella sbagliata”. Con questo commento la persona prendeva atto che le griglie poste dal processo di promozione avevano prodotto esattamente il risultato atteso, cioè di promuovere persone con certe caratteristiche, ma che le stesse venivano lette in modo negativo se possedute da una donna.
Quanto raccontato sopra spiega, in parte, il motivo per cui, nonostante sempre più aziende siano impegnate nell’affrontare il tema inclusione, diversità e disuguaglianze, i progressi fatti siano minimi.

Sono profondamente convinta che i leader strategici, quelli così definiti da John Coleman sull’Harvard Business Review, in grado di mixare in modo nuovo agilità (=nonconformità) e consistenza (=allineamento) riusciranno a cambiare il corso delle cose.

 

Voler vedere le cose da un punto di vista differente

È la sintesi che vi propongo: la diversità si progetta in funzione dell’innovazione che si vuole ottenere, anche integrando leve diverse che consentano all’organizzazione di imparare ad accogliere e valorizzare i punti di vista che fanno la differenza e ai “diversi” di rafforzare le capacità per inserirsi in contesti resistenti.

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