Riprogettarsi, si! Ma per quale mondo?

21 GIU 2021 Riprogettarsi, si! Ma per quale mondo?

Pubblicato da Laura Zanfrini

Un mondo a trazione tecnologica

 

Lo choc della pandemia da covid-19 ci ha messi di fronte le potenzialità dirompenti di un fenomeno dall’andamento esponenziale, aggettivo che ben si presta a descrivere l’accelerazione globale a trazione tecnologica in cui ci vediamo coinvolti. Un simile evento è stato al contempo un ulteriore moltiplicatore della trasformazione, digitale quanto sociale, e un inatteso “reality check” che ha costretto l’umanità a fare i conti con i risultati di anni della propria ricerca e implementazione. Abbiamo così realizzato la nostra dipendenza da software per effettuare videochiamate, pasti ordinati a domicilio via app, servizi di streaming multimediali. Ed è solo la punta di un iceberg di innovazioni sommerse, dalla robotica su larga scala dei magazzini Amazon all’utilizzo dei big data delle piattaforme online per offrire esperienze utente più efficaci e personalizzate.

La definitiva affermazione di Big Tech associata all’esplosione dell’e-commerce (un settore che secondo McKinsey ha visto nella prima metà del 2020 una crescita pari a quella dei 10 anni precedenti) ha spinto innumerevoli aziende a intraprendere o potenziare i loro programmi di ristrutturazione e trasformazione digitale, investendo innanzitutto in piattaforme di Machine learning AI e rinnovando hardware obsoleti. Tali strumenti sono tuttavia destinati a un utilizzo inadeguato senza l’inserimento di nuovi profili qualificati nella forza lavoro e massicci programmi di reskilling o upskilling continuo: in un report IBM-Institute for Business Value si stima che il 45% delle aziende non riescano a trovare le competenze richieste sul mercato del lavoro, problematica esacerbata dalla contemporanea riduzione della “emivita” delle nuove competenze apprese e un aumento del tempo richiesto per apprenderle. Non va dimenticato d’altra parte che tali difficoltà dal lato dell’offerta del lavoro possono rappresentare opportunità per chi vuole entrarci.

Un nuovo mondo del lavoro

 

Il rapido mutamento nei profili di lavoro richiesti pone quindi una serie di interrogativi. Che tipo di professionalità andranno via via sparendo? Quali altre prenderanno il loro posto? È ragionevole credere che i posti di lavoro creati supereranno quelli persi? Nel suo report annuale sul futuro del lavoro, il World Economic Forum ha provato a fornire delle risposte; secondo i loro sondaggi il 43% delle aziende ha intenzione di ridurre la loro forza lavoro in virtù di una maggiore integrazione tecnologica laddove il 34% prevede di aumentarla grazie alle opportunità di crescita dovute all’innovazione. Il WEF prevede comunque un aumento complessivo dei posti di lavoro disponibili, così come pare certa una ulteriore rapida digitalizzazione dei processi aziendali (84% dei datori di lavoro si dicono favorevoli), foriera non solo di aumenti di produttività ma soprattutto di una sempre maggior diffusione del remote working.

Più complessa è la questione delle competenze richieste, in quanto al di là del già citato imperativo dell’apprendimento permanente, sia individuale sia supportato da politiche aziendali il più possibile personalizzate, al momento non è semplice prevedere quali saranno le esigenze precipue dei datori di lavoro anche solo fra pochi anni. Basti infatti pensare che se solo 5 anni (sondaggio IBM-IfBV) fa le conoscenze STEM e le competenze informatiche di base rappresentavano il non plus ultra, oggi le aziende sono largamente concordi nel richiedere primariamente un bagaglio personale ricco di soft skills come adattabilità al cambiamento, flessibilità, volontà di lavorare in gruppo e capacità di problem solving e innovazione. Questo non significa ovviamente che esperienza di programmazione o padronanza della statistica non siano ancora altamente ricercate, anzi, ma che, grazie anche all’enfasi posta sul loro valore negli ultimi anni, esse rappresentino una base essenziale da cui partire anziché un punto d’arrivo.

La nostra dimensione

 

Se l’accelerazione tecnologica è ormai un fatto assodato e la conseguente risposta delle aziende prende già piede, vale la pena pre-occuparsi da subito del proprio adattamento al nuovo mondo in maniera proattiva. È bene intanto essere coscienti di trovarsi in una realtà di tipo VUCA. o TUNA, due acronimi coniati rispettivamente dallo US Army War College o dalla University of Oxford: si tratta di un mondo caratterizzato da volatilità/turbolenza (cambiamenti sempre più rapidi e frequenti), incertezza (difficoltà crescenti nel prevedere il futuro anche prossimo), complessità (molteplici elementi decisionali e nuovi fattori da considerare) e ambiguità (eventi dalle conseguenze difficili da chiarire e interpretare). Ciò detto, l’adattabilità umana resta un’arma formidabile, anche se merita chiedersi a quale gruppo di essere umani si vuole appartenere: preferiamo essere degli “early adopter” che vengono coinvolti facilmente in nuove attività e promuovono il cambiamento oppure dei “foot dragger” che vi resistono con pervicacia si adeguano solo in mancanza di alternative?

Immaginando che sia la prima categoria quella desiderata, un metodo efficace per approcciarsi al cambiamento in maniera “inside-out”, ossia partendo dall’individuo e arrivando alla comunità o organizzazione, consiste nell’adottare un growth mindset, termine coniato dalla psicologa Carol Dweck. Gli individui dotati di tale mentalità sono infatti ricettivi nei confronti del feedback, vedono sfide e fallimenti come fonti di opportunità di crescita e in generale non si lasciano zavorrare da paure di inadeguatezza. Sostituire routine mentali come “non sono portato per queste cose” con la convinzione che sia sempre possibile acquisire nuove abilità, disimparare comportamenti vetusti e re-imparare a fare cose vecchie in modi nuovi: “learn, unlearn, relearn”.

Benché la motivazione individuale sia la scintilla imprescindibile alla base del proprio percorso di cambiamento, il ruolo della formazione aziendale non può essere sottovalutato ed è anzi auspicabile che si instauri un sodalizio fra datore di lavoro e dipendente se si vogliono ottenere risultati validi. Come spiega Benham Tabrizi di Harvard Business Review, in questo rapporto la trasparenza ha un ruolo fondamentale poiché può raggiungere il duplice obiettivo di rassicurare i dipendenti e cucire su misura le loro nuove mansioni aziendali. In un contesto di trasformazione digitale, ad esempio, anziché lasciare che i manager si improvvisino riluttanti gestori di un processo che temono possa costar loro il lavoro, le aziende dovrebbero rassicurarli sulla loro rilevanza e spingerli a riformare l’ambiente in modo che le nuove tecnologie siano in primis d’aiuto a loro per aumentare la produttività o rendere meno tediosi determinati compiti.

Quando inizia il (nostro) futuro?

 

L’eterogeneità degli ambienti lavorativi deve però far riflettere sul valore del rendere indipendente dalle contingenze del momento il proprio percorso di sviluppo. Per evitare di doversi continuamente adeguare ai mutamenti e procedere in autonomia si può ricorrere alla metodologia del design thinking, un insieme di tecniche ed esercizi messo a punto da due professori di Stanford che consiglia di trattare la propria carriera come se fosse un oggetto da progettare, sapendo a grandi linee quali sono gli obiettivi ma senza strategie predeterminate. Semplificando un poco, il loro consiglio primario è di non cercare di pianificare tutto a tavolino, bensì di sperimentare quante più nuove attività possibili costruendosi piccoli progetti pilota dal ruolo di cartine tornasole. Idealmente, ognuno potrà così creare diverse simulazioni della sua vita, perlomeno lavorativa, capaci di orientare le proprie scelte di volta in volta nella direzione più adeguata e mantenendosi in una sorta di “beta permanente”. Ed è proprio questo concetto, in ultimo, a dover essere una bussola fondamentale per chi voglia navigare le acque agitate di un mondo in continua rivoluzione: proprio come i software con cui interagiamo dovremo essere in grado di presentarci come funzionali ma modificabili, robusti ma flessibili, fiduciosi in noi stessi ma sempre pronti a ripensarci da cima a piedi.

 

Laura Zanfrini con il supporto di Alberto Peruzzi

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